Sereo eoi limbte, olifar mosere noibidung fregifis. Resemel, zezetiuop.

20041206

city


city limbte.

Una mattina mi sveglio e accendo il computer per la musica. Come d'abitudine leggo il corriere online; la pagina non si carica. Cambio indirizzo, vado su repubblica ma non succede nulla, provo su un sito americano, non succede nulla. Accendo la televisione ma nessun canale è sintonizzato. Neanche la posta arriva. Apro la porta d'ingresso per cercare non so cosa ma tutte le porte sono spalancate sul pianerottolo e gli appartamenti vuoti. Ritorno dentro e vado al telefono già  sicuro di trovare un tono muto. Mi dirigo verso il balcone, apro la portafinestra e tutto intorno non c'è nessuno; hanno abbandonato tutto in fretta, lasciando i panni stesi e le porte aperte come avessero saputo di non tornare mai più. Non so per che motivo mi siedo per terra sul pavimento del balcone a guardare da dietro alle sbarre della ringhiera il mio cortile vuoto. Non si sente il rombo del motore dell'autobus che accelera in curva e nessun rumore proviene dal cantiere di uno degli appartamenti sul cortile. Mi alzo e mi vesto in fretta, appena fuori mi chiedo se chiudere la porta, la mia sarà l'unica chiusa della città . In via Binda non c'è il consueto movimento, l'incrocio con via Watt è deserto e alcune macchine sono state abbandonate con gli sportelli aperti in mezzo alla via, il bar è ancora chiuso. Mi prende all'improvviso la nausea e mi fermo a respirare profondamente solo l'aria che è rimasta quella di ieri. Ho voglia di chiamare i miei familiari, vorrei sapere da loro cosa è successo questa notte, il cellulare, lo accendo, il segnale c'è, mio fratello non risponde, i miei genitori, spenti.
Ora posso solo immaginare cosa farò. Posso immaginare che camminerò per la città alla ricerca di qualcuno rimasto per chiedergli perchè lui e perchè.

20041205

da dove

Oggi ho incontrato P.; da dove veniva P.? Da dove veniva P.? Da dove veniva p? e ora sono annichilito nella paura che lei si sciolga nella nebulosa da cui è provenuta. “Da dove arrivi”, le avrei detto, “che ci fai nella mia isola?” ancora non ricordo il momento in cui è comparsa. Nella paralisi di ora ripenso al ripenso e non so se credere che le parole imbambolate dette oggi possano restare le uniche cose fatte. Io come al solito mi espongo temerario, mi metto a declamare dal davanzale, a torso nudo, con la canottiera a roteare fra le dita e mi pare di essere sempre ridicolo. Sono sempre quel bambino timido dei nove anni, che imbrogliava e si imbrogliava fra le altalene e dietro alle cattedre per non farsi capire; col terrore di essere compreso e nella brama di venire capito finalemente, nella magia irragionevole che allora sarebbe stata per magia davvero. Ora mi guardo e riguardo, aggrappato alla poltrona a chiedermi che mignolo muovere. Che unghia muovere? E in questo mi ripeto segretemente di non abbandonarmi, di rimanere ben saldo ai miei giorni grigi di solitudo. Pensando che sui miei quaderni c’è una parola scritta da lei, solo per quello, capisco che qualcosa è successo davvero e che non è stato solo un sogno, uno dei miei tanti. Mi commuove la mia ingenua bambineria incapace. Certo, anche che lei abbia un foglio staccato da lì su cui io ho scritto poche lettere, tredici. E se qualcosa rimane di oggi, sarà un vero miracolo. Sto immobile e non so che pelo muovere, nell’impossibilità di capire se si è trattato di un prodigio o se un incidente delle mie solitarie. Dove guardo, dove vado, dove guardo, dove vo.

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